Emmaus e noi: l’altro discepolo (Pasqua 3 A 2020)

Negli Esercizi Spirituali, per la preghiera di contemplazione Ignazio ci dice di: “udire quello che dicono [le persone] e ricavarne qualche frutto” (EE 194).

«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32).

Sono l’altro discepolo di Emmaus.

Luca nomina solo Cleofa, ma il Signore si rivolge a noi due come se fossimo una cosa sola: ci chiede, ci sfida, ci spezza il pane e ci illumina insieme. Siamo entrati nella storia come i «discepoli di Emmaus», e anche se quella sera ha parlato solo Cleofa e ora qui parlo solo io, sempre usiamo il noi. Luca è stato colui che meglio si è reso conto di questo nuovo modo di procedere in comune che lo Spirito ha suscitato all’interno della nostra piccola comunità. Nel nostro incontro con il Signore Risorto, Egli anticipa quello che sarebbe poi diventato abituale nelle Atti degli Apostoli. Negli Atti le azioni e il linguaggio dei discepoli hanno sempre la forma del noi, tanto che a un certo punto essi diranno: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…» (At 15,28)… Lo Spirito Santo e noi! Pensate un po’! Se qualcuno è interessato alle statistiche, posso dirvi che Luca è quello che usa più volte la parola noi: 21 volte nel suo Vangelo –di cui 3 nel racconto dei discepoli di Emmaus – e 57 volte negli Atti: in totale lo usa 78 volte sulle 300 volte complessive del Nuovo Testamento: in Luca tutto è noi.

Questo preambolo serve per dire che se qualcuno di voi vive il fatto che il mio nome non venga menzionato, e che si parli di noi, come un invito a sentirsi al mio posto, bene! Che sia benvenuto. Da quando abbiamo invitato il Signore nella nostra casa senza sapere che era Lui, l’ospitalità è diventata per noi fonte di speranza. La speranza di rivederlo risuscitato. Infatti, il nome del mio compagno esprime proprio questo: Cleofa significa «colui che vede la gloria». Quindi, se volete far parte della scena, nessun problema. Per noi, ogni straniero che entra nel nostro Vangelo e ci accompagna per un tratto di strada è Gesù stesso.

D’ora in poi userò il noi e spero che vi sentiate inclusi.

Quello che volevamo testimoniare con Cleofa è semplicemente la grazia che il Signore ci ha dato di «sentire e lavorare insieme». Ci aveva già mandato in missione in coppia, e questo ci aveva segnato: siamo rimasti compagni per sempre. Siamo stati anche compagni di delusione, come si vede dal fatto che abbandonavamo la comunità insieme. E Lui è venuto a cercarci entrambi.

Si vede che al Signore piace chiamare a due a due, mandare a due a due, riunire due nel suo nome per pregare… Si tratta di un due che diventa rapidamente tre: «Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono lì in mezzo a loro» (Mt 18, 19-20). È così. È un due aperto, un incontro a due per formare una famiglia, per diventare una comunità.

Beh, proprio la comunità era il nostro problema. Gesù ci ha sorpresi a parlare in modo sfacciato della comunità. Come è stato possibile che i «nostri»sommi sacerdoti e i «nostri» capi lo avessero condannato? E il nostro gruppo? Quanto era doloroso vedere germogliare già al suo interno i semi della dissoluzione! Che altro poteva significare il fatto che alcune delle donne che erano in cammino con noi, non vedendo il corpo del Signore, avessero cominciato a vedere visioni di angeli, e che alcuni dei nostri le abbiano creduto e altri no? Abituati a camminare uniti intorno a Lui, abbiamo visto come la disunione cominciava a prendere radici; e non volendo essere complici, come di solito accade, ce ne siamo andati, contribuendo però ad aumentare proprio quella divisione che temevamo. Che mistero, no? Mentre dicevamo di voler formare una comunità e prendercene cura, l’abbiamo fatta a pezzi.

Ma avevamo un rimpianto profondo, ed era rivolto a Lui. Avevamo sperato in Lui e ora non lo vedevamo. E senza di Lui nessuna comunità è possibile:questo ci era chiaro e credo che sia ancora valido per tutti. Senza di Lui, non c’è gruppo che possa resistere. Senza di Lui, il pio ricordo di ciò che abbiamo vissuto insieme non è altro che nostalgia senza futuro. Senza di Lui, il misticismo della comunità diventa presto politica, come per i nostri Sadducei; o finisce per essere puro ritualismo e burocrazia – una comunità di tombe imbiancate a calce – come per i nostri Farisei.

Non sapevamo cosa sarebbe successo alla nostra comunità, ma non volevamo rimanere nei paraggi per scoprirlo. Per questo ce ne siamo andati. Abbiamo visto il problema della comunità in modo così chiaro che i nostri occhi sono diventati velati di tristezza fino al punto di non essere in grado di riconoscere il Maestro quando lui stesso si è messo accanto a noi sulla strada. Era un semplice viandante, senza niente di speciale, se non quella naturalezza con cui si è avvicinato a noi e ci ha fatto parlare dal cuore…

Questa è stata la cosa più profonda che abbiamo scoperto più tardi, quando abbiamo ricordato l’ardore che ci ha infuocato il cuore come un piccolo pezzo di brace: proprio nel punto del nostro cammino in cui la disillusione per la comunità diventava lucida, proprio lì, dove i nostri occhi credevano di poter vedere più chiaramente cos’è la vita, si è avvicinato a noi – come a due ciechi – Colui che illumina tutto. E prima di darci Lui la luce, ha acceso in noi quell’ardore, e ci ha fatto capire che per «vedere la sua gloria» erano stati necessari quei tre giorni di passione. Noi, con la grazia della sua vicinanza, abbiamo assorbito tutto e quindi, seppur ciechi, abbiamo dialogato con lui; e un impulso irresistibile ci ha indotto a invitarlo a restare a casa.

Prima di vederlo lo abbiamo ascoltato, prima di riconoscerlo lo abbiamo ospitato, prima di capirlo «lo abbiamo assaggiato», quando ha spezzato il pane per noi. Questo suo modo di entrare di nuovo nella nostra vita, facendo appello solamente al dialogo, all’ospitalità e alla fede, ci ha illuminatola via del ritorno alla comunità.

Siamo tornati alla comunità pronti a camminare con gli altri, aperti all’ascolto, disposti a condividere prima di discutere: siamo tornati di corsa alla comunità.

Abbiamo fatto fare al Signore gli «straordinari». È vero che noi figli prodighi tiriamo fuori il meglio dal cuore di Dio, la sua divina misericordia. Ma con tanti prodighi e piccoli che si perdono nel mondo, il ritorno alla comunità deve essere rapido, in modo da poter uscire insieme a cercare altri che ne hanno bisogno. Vi confessiamo che il nostro modo di stare in comunità, da quel momento è stato un puro essere disponibili: ad andare dove i più anziani ci mandano e a fare ciò che serve per aiutarli. Non ci siamo più fatti coinvolgere da nessun lotta interna. Non ci facciamo più prendere da discorsi senza speranza.

Siamo diventati il tipo di persone che «tutto credono, tutto sperano, tutto sopportano…». Alcuni ci vedono come degli ingenui. Ma noi sorridiamo interiormente perché sappiamo cosa significhi essere di nuovo sulla strada che porta lontano dalla comunità. E ci piace considerarci «di seconda classe», poter essere, all’interno della grande Comunità, parte di «coloro che sono tornati», delle pecore smarrite che sono state ritrovate, dei peccatori che sono stati perdonati, degli scettici che poi si sono fidati, di coloro che prima hanno dato ordini e che ora vogliono obbedire. Speriamo che questo ritorno sia ben compreso: non ci ha reso più «scafati», ma più obbedienti.

Diego Javier Fares S.I.

La idea es que Jesús nunca deja de confiar en nosotros (Pascua 3 A 2020)

He aquí que dos de los discípulos iban aquel mismo día a un pequeño pueblo distante unos 12 km. de Jerusalén, de nombre Emaús. Iban charlando entre sí de todas estas cosas que habían acontecido. Y sucedió que en medio de la conversación y de la discusión, el mismo Jesús se les aproximó y caminaba con ellos. Pero sus ojos estaban como retenidos para que no lo reconocieran. El les dijo: «¿Qué son estas palabras que intercambian entre ustedes mientras van caminando? Ellos se detuvieron tristes y le respondió uno llamado Cleofás, diciéndole: «¡Eres tú el único peregrino en Jerusalén que no está enterado de las cosas que estos días ocurrieron en la ciudad?  «¿Cuáles?», les preguntó. Ellos respondieron: «Las de Jesús, el Nazareno, que fue un profeta poderoso en obras y en palabras delante de Dios y de todo el pueblo, y cómo nuestros sumos sacerdotes y nuestros jefes lo entregaron para ser condenado a muerte y lo crucificaron. Nosotros esperábamos que fuera él quien librara a Israel. Pero a todo esto ya van tres días que sucedieron estas cosas. Es verdad que algunas mujeres que están con nosotros nos han dejado sorprendidos: ellas fueron de madrugada al sepulcro y al no hallar el cuerpo de Jesús, volvieron diciendo que se les habían aparecido unos ángeles, asegurándoles que él está vivo. Algunos de los nuestros fueron al sepulcro y encontraron todo como las mujeres habían dicho. Pero a él no lo vieron». 

Jesús les dijo: “¡Qué necios son y qué lentos de corazón para creer todo lo que anunciaron los profetas! ¿No ven que era necesario que el Mesías soportara esos sufrimientos para entrar en su gloria?” Y comenzando por Moisés y continuando con todos los profetas, les interpretó en todas las Escrituras lo que se refería a él. Cuando llegaron cerca de su pueblo, hizo ademán de seguir adelante. Pero ellos le insistieron: «Quédate con nosotros, porque ya es tarde y el día se acaba.» El entró y se quedó con ellos. Y estando sentado a la mesa con ellos, tomó el pan, lo bendijo y después de partirlo se lo daba. Entonces les fueron abiertos los ojos y lo reconocieron, pero él se les hizo invisible. Y se decían: « ¿No ardía acaso nuestro corazón, mientras nos hablaba en el camino y abría para nosotros las Escrituras?» En ese mismo momento, se pusieron en camino y regresaron a Jerusalén. Allí encontraron reunidos a los Once y a los demás que estaban con ellos, y estos les dijeron: «Es verdad, ¡el Señor ha resucitado y se apareció a Simón!» Ellos, por su parte, contaron lo que les había pasado en el camino y cómo lo habían reconocido al partir el pan” (Lc 24, 13-35).

Contemplación

Ayer en Radio María, Javier Cámara me preguntó: “En el fondo de tu corazón, padre, ¿qué significa ‘creer’?”. Y yo me acordé de otra pregunta que me hizo una vez un sacerdote del cual me olvidé la cara y el nombre pero me quedó el tono. Era un intelectual, un profesor de teología. No sé cómo fue que en la conversación salió el tema de qué predicaba cada uno y yo dije: yo predico a Jesús. Recuerdo que me miró un poco como diciendo “Obvio! Todos predicamos a ‘Jesús’.  Pero ‘qué Jesús’?”. En esa época se hablaba del Jesús de la fe y del Jesús de la historia y se daban esas discusiones teológicas. Yo no supe responder más que redoblando la palabra: “yo predico a Jesús Jesús”. Y agregué: “El primer Jesús es el que conozco yo y el que conocés vos. El segundo Jesús es el que se mete en la conversación cuando nos ponemos a hablar de Él. Se mete en medio y nos predica Él algo nuevo, algo que nos hace arder el corazón como una brasa, algo atractivo para los dos”. 

Hoy el Papa en Santa Marta habló de la fe y dijo que “la fe es misionera o no es fe. La fe te hace salir de vos mismo para ir a comunicarla, con el testimonio del servicio antes que con las palabras”. 

El evangelio de Emaús nos muestra cómo Jesús practica lo que dice. El anuncio que despierta la fe lo hace “caminando con ellos”. Acompañándolos en esos 12 km – sesenta estadios – que los iban alejando de Jerusalén y de la comunidad de los discípulos, a la que volverán corriendo después que Jesús les abra los ojos y les parta el pan. Jesús anuncia su Buena noticia, la noticia de que la pasión y la muerte en cruz fueron necesarias y que el Padre lo ha resucitado, y lo hace “en medio de la conversación y de la discusión” en que ellos estaban metidos. 

“En camino” y “en medio de la conversación”. En un camino que, en este caso, parece que va de mal en peor. Jesús no nos acompaña solo cuando vamos camino del bien, también se vuelve cercano cuando vamos por mal camino. Es importante descubrir esto, porque más allá de “a dónde vamos”, el hecho es que el Señor resucitado se mete en la dinámica del caminar, que siempre es algo bueno en sí mismo. Basta ver la creatividad con que cada uno se las ingenia para buscar y hallar lo que le interesa, más allá de si busca sus propios intereses (su propia gloria) o los de Cristo. En la dinámica del caminar entre Cristo, y nos acompaña por el camino.

Y se mete “en medio de la conversación”. No impone la suya, entra en la nuestra, interesado por lo que nos pasa, por los sentimientos que nuestras palabras expresan. En este caso la conversación les había vuelto triste el rostro. El Señor es la Palabra y no les teme a nuestras palabras. Si a alguna le teme es a las palabras abstractas, las que se van destilando hasta no ser de nadie, hasta no tener rostro, porque no se sabe quién las dijo. En cambio no les teme a las palabras que expresan lo que uno siente en el corazón, en el hígado y en la panza. Estas palabras cargadas de afecto se pueden discernir. A ellos, después que los escucha lamentarse a gusto, les reprocha con fuerza su necedad y lentitud de corazón para creer en las palabras de la Escritura. Esta pedagogía del Señor se debe a que si uno se anima a hablar sinceramente expresando todo lo que le pasa, puede comparar sus palabras con las palabras de vida de la Escritura. En esta discusión entra el Señor y luego de entrarles hondo con la espada del discernimiento haciéndoles sentir que la tristeza no viene de los hechos sino de la ceguera de su mente y de la dureza de su corazón, le hace arder el corazón con su versión de los mismos hechos narrada en clave de fe y de esperanza.

Qué significa esto para nuestra fe y para nuestro anuncio del evangelio? Que tenemos que convertirnos al estilo de Jesús. Con su ejemplo nos invita a salir de nosotros mismos, de nuestras teologías abstractas que son una especie de “anti-prédica” porque las palabras que usamos no buscan el oído y el corazón de los otros, sino que son palabras que se miran al espejo como quien se prueba un vestido, palabras que se hablan a sí mismas, destilando más y más su significado hasta terminar en fórmulas que solo entienden los especialistas. La palabra evangélica no es palabra que se mira a sí misma, es palabra humilde y servicial, que se ofrece al otro acompañándolo e interesándose por su corazón, por lo que siente. La servicialidad de la palabra evangélica se interesa por escuchar con precisión lo que al otro le pasa en su corazón. No le interesa “definir” cuál es su ideología, sino cuál es su situación espiritual. Y cuando el otro muestra su corazón, el que discípulo misionero de Jesús le dice la palabra del Señor que puede iluminar su situación. Es una palabra  que busca llegar al corazón del otro, pero no para instalar algún sistema de ideas ni para influir en los comportamientos morales del otro, sino para despertar en él otros sentimientos que lo lleven a elegir dentro suyo otras palabras que ya tiene sembradas, esas que el Sembrador sembró en su corazón y que el Espíritu puede hacer florecer y dar fruto. 

Un pequeño ejemplo – o más bien una pequeña parábola- acerca de cómo el Espíritu de Jesús lleva adelante este modo de evangelizar hoy, en la vida cotidiana de una familia. Me escribe una mamá joven amiga: “Te escribo porque quería contarte algo que reflexionamos con Feli en catequesis. Estamos viendo la parábola del buen sembrador. La seño de catequesis les mandó un video con una canción que contaba esta parábola y Feli dijo que el buen sembrador era Jesús. Ahora, cuando terminó de verlo, una de las preguntas de la seño era “qué es lo que más te llamó la atención” y Feli dijo: “Que Jesús tire semillas en tierra seca”. Él quería decir que no entendía por qué Jesús “desperdiciaba” semillas, cuando en realidad él puede ver cómo está tu corazón. “Para qué tirar semillas si está espinado?”, nos preguntó. Logramos pensar que en realidad Jesús no desperdicia, sino que nos regala posibilidades, porque sus semillas son infinitas. No se desperdician, porque cuando crecen, crecen más posibilidades y nuevas semillas. Quedó contento y cerró diciendo: “Entonces la idea es que Jesús nunca deja de confiar en nosotros”. Me pareció maravilloso. Esa simpleza de los chicos… Nada, solo quería compartirlo con vos. Te quiero mucho. Y espero que Jesús siga sembrando aún en mi corazón, que está más seco y lleno de piedras que otra cosa. Beso enorme”.

Yo le respondí: “Qué genio! Bueno, ese es el Espíritu Santo que inspira a los pequeños cuando leen la Palabra con su mamá y su papá y los evangelizan a ellos”.

Emaús, hoy.

Diego Fares sj

Tommaso: se non vedo insieme agli altri, non vedo. La nota spirituale de «La Civiltà Cattolica». LA CIVILTÀ CATTOLICA ·DOMENICA 19 APRILE 2020·

“Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi (…) io non credo” (cfr. Gv 20, 25).

Sono Tommaso.

Già altri mi hanno dato voce. In un bel testo di Martin Descalzo – Siempre es viernes santo (1963) – mi sono definito «l’uomo che si dimenticava di credere». Mi spaventava che, col passare del tempo, dopo la partenza del Signore, pensavo sempre meno a Lui; finché una notte mi sono reso conto che era passata un’intera giornata senza aver ricordato Gesù almeno per un istante, occupato come ero a pensare alle cose del giorno…

Oggi vorrei parlare dei segni che mi hanno aiutato a credere.

I segni! È tutta una questione di segni (una questione di linguaggio, come dite voi). C’è sempre qualcosa che fa la differenza, un dettaglio che per qualcuno diventa il segno di qualcos’altro…

Per me i segni erano le piaghe. Non so per gli altri. E il Signore ha approfittato del mio caso per lasciare una lezione che si addice a tutti: «Beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto» (Gv 20,29).

Poiché ho riflettuto molto su questa misteriosa frase del Signore, vorrei condividerla con voi, nel caso in cui qualcuno trovi utile la mia esperienza. Perché è di questo che si tratta: del valore di ciò che si vive. Ossia, se si deve prima sperimentare per credere. O è il contrario?

Qualcuno ha pensato che il Signore lodi coloro che hanno una fede senza segni, una «fede pura»? Non credo sia giusto pensarla in questo modo. È vero che il Maestro rimproverava sempre un po’ le richieste di segni: «Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete» (Gv 4,48). Ma rimproverava i farisei.


Agli umili il Signore faceva i miracoli che gli chiedevano. E se li ammoniva un po’, era per incoraggiarli ad avere più fede. Chi meglio di Gesù ha capito il nostro bisogno di segni? Non è Lui «l’immagine visibile del Dio invisibile»? (Col 1,15). Il Verbo che si è fatto carne per poterlo vedere e toccare?

Credo che la questione stia nel tipo di segni e nel modo in cui vengono richiesti. Cerchiamo segni straordinari… E il Signore ci ha riempito di segni quotidiani del suo amore.

In questo senso, vi dico che non sbagliavo a cercare un segno nelle sue piaghe. Era infatti il segno che il Signore aveva mostrato: le ferite luminose delle sue mani, dei suoi piedi e del suo costato. Il problema con me era un altro. Come dire… il problema stava nel fatto che ero «sfasato», non ero al passo con la comunità.Era una questione di tempi. Quando il Signore ha mostrato le sue ferite, quando è tornato dallo Sheol e ha soffiato su di essi lo Spirito che perdona i peccati, quando ha dato loro la pace… io non ero con la comunità. E siccome i segni cambiano – come cambia il modo di dire le stesse cose quasi quotidianamente – il problema era che chiedevo di vedere segni che erano già nel passato. Non solo perché il Signore li aveva già mostrati, ma, ancora più profondamente, credo, perché mi muovevo nel raggio della mia percezione individuale, mentre il Signore aveva riunito i miei fratelli in un unico gregge, e loro si erano già mossi nel regno dei segni comuni. Non erano più un gruppo, erano l’Assemblea, la Chiesa, come dite voi, dove l’esperienza di fede e di carità è «comunitaria».

A ben vedere, il mio linguaggio era «io», «il mio dito», «i miei occhi», «la mia mano». Invece, il linguaggio dei miei fratelli era già: «Abbiamo visto il Signore». (Gv 20,25).

Perdonatemi se insisto, ma essendo stato il primo cristiano diffidente, sento che quello che ho sperimentato può aiutarvi, dato che il vostro tempo è piuttosto diffidente in materia di fede. Vediamo se riesco a esprimerlo bene, perché è importante credere «senza vedere», credere «al di là di ciò che si può sperimentare psicologicamente», «credere vedendo con gli occhi degli altri testimoni», «credere in comunità».


Così importante che è una delle due beatitudini che Giovanni pone. La prima beatitudine benedice l’azione, la pratica. Il Maestro lo pronunciò dopo averci lavato i piedi: «Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17). Il servizio è un segno dell’amore di Gesù. L’altra beatitudine è la mia (o meglio quella che mi è stata comunicata in forma di rimprovero perché gli altri la ricevessero come benedizione): «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». È la beatitudine che benedice la fede. Benedice un modo di interpretare i segni con fede, come segni dell’amore di Gesù. E siccome tutta la nostra vita è fatta di segni da interpretare, chi impara a leggerli bene sarà molto felice, come Maria.

Chi non lo fa, vivrà quello che ho vissuto io quella terribile settimana: fuori controllo, rivendicando ciò che mi era già stato dato, cieco davanti alla luce, assetato accanto alla fontana dell’acqua viva, solo e isolato in mezzo alla comunità dei beati… Senza mai finire di capire che il Signore mi aveva già detto tutto; cioè, che si trattava di passare all’altra beatitudine: quella dell’amore messo in pratica, come dirà poi Pietro nella sua bella lettera a tutti quelli che verranno dopo di noi: «Voi che amate Gesù senza averlo visto» (1Pt 1,8).

Bene, questo è quello che volevo condividere con voi. Se guardate bene, la mia ultima apparizione nel Vangelo sarà in comunità, accanto a Simon Pietro e agli altri, andando a pescare insieme sulla barca, in attesa di un altro segno del Signore risorto (Gv 21,2). La frase di Giovanni – «I discepoli non hanno osato chiedergli: “Chi sei tu? Perché sapevamo che era il Signore”» – la scrive per me. Il fatto è che la mia ricerca di segni era diventata più matura: è passata dal regno delle ferite individuali e dalla portata delle mie dita e delle mie mani, al regno del lavoro apostolico in mezzo alla mia comunità.

Diego Fares S.I.

El Señor da el Espíritu para el perdón… pero de qué pecado? (Pascua 2 A 2020)

Al atardecer de ese mismo día, el primero de la semana, estando cerradas las puertas del lugar donde se encontraban los discípulos, por temor a los judíos, llegó Jesús y poniéndose en medio de ellos, les dijo: «¡La paz esté con ustedes!».  Mientras decía esto, les mostró sus manos y su costado. Los discípulos se llenaron de alegría cuando vieron al Señor. Jesús les dijo de nuevo: «¡La paz esté con ustedes! Como el Padre me envió a mí, yo también los envío a ustedes».  Al decirles esto, sopló sobre ellos y añadió: «Reciban el Espíritu Santo. Los pecados serán perdonados a los que ustedes se los perdonen, y serán retenidos a los que ustedes se los retengan». 

Tomás, uno de los Doce, de sobrenombre el Mellizo, no estaba con ellos cuando llegó Jesús. Los otros discípulos le dijeron: «¡Hemos visto al Señor!». El les respondió: «Si no veo la marca de los clavos en sus manos, si no pongo el dedo en el lugar de los clavos y la mano en su costado, no lo creeré».  Ocho días más tarde, estaban de nuevo los discípulos reunidos en la casa, y estaba con ellos Tomás. Entonces apareció Jesús, estando cerradas las puertas, se puso en medio de ellos y les dijo: «¡La paz esté con ustedes!». Luego dijo a Tomás: «Trae aquí tu dedo: aquí están mis manos. Acerca tu mano: Métela en mi costado. En adelante no seas incrédulo, sino creyente». Tomas respondió: ¡Señor mío y Dios mío!» Jesús le dijo: «Ahora crees, porque me has visto. ¡Felices los que creen sin haber visto!» (Jn 20. 19-29).

Contemplación

Contemplemos el centro de la escena: el momento en que el Señor sopla el Espíritu Santo -del Padre y Suyo- en la comunidad de los discípulos y los exhorta a recibirlo para el perdón de los pecados. Cuando los discípulos le cuentan a Tomás que han visto al Señor, él no pregunta “qué hizo” ni “qué les dijo”, sino que sale con esa frase de “si no veo la marca de los clavos y si no meto mi dedo en sus llagas… no creeré”. 

Lo que me impresiona es que no solo no le pudieron anunciar que habían recibido el Espíritu para perdonar los pecados, sino que a Tomás ni se le habrá pasado por la cabeza pensar que su actitud era “un pecado”. Un pecado no en el sentido de una falta moral que uno puede tener por debilidad y mejorar con un poco de buena voluntad. Un pecado en sentido fuerte, de una actitud nos impide de raíz abrirnos a Jesús resucitado y que sólo el don de su Espíritu puede desbloquear. 

La realidad es que Jesús, cuando vino de nuevo, le reprochó a Tomás su incredulidad de modo muy directo: “De ahora en adelante no seas incrédulo, sino creyente”. No le dijo, es comprensible que hayas dudado… Nadie te podría condenar y yo tampoco te condeno… Nada de eso. Al contrario,  con la incredulidad, Jesús se muestra duro, como vemos que sucede con los de Emaús. Es que se trata de un pecado que está en la raíz de todo lo demás. Me resulta sorprendente que tampoco le diga: Yo te perdono. Como si esta tarea ya estuviera en manos del Espíritu definitivamente.

Lo que quiero hacer notar es que en esta escena, para comprender bien qué significa que el Espíritu es dado a la Iglesia para el perdón de los pecados, hay que contemplar lo que le pasó a Tomás. Se lo podría considerar como uno de los “perdonados por el Espíritu”. Si leemos desde esta perspectiva el evangelio, María Magdalena habría sido “perdonada” de esas lágrimas que le impedían reconocer a Jesús. Tomás es “perdonado” de su incredulidad, que está ligada a su actitud para con la comunidad que lo llevó a “no estar” y luego a “no creer en el testimonio que le daban”. Y así todos, el Espíritu les “perdonará” el tener las mentes cerradas y el corazón duro para creer en las Escrituras… 

Pero volvamos a Tomás. Se ve que él no consideraba su incredulidad como un pecado en el sentido en que lo tomamos aquí, como algo que lo bloquea y que solo el Espíritu Santo puede disolver, sino como una legítima exigencia de su razón. No  relacionaba su incredulidad, por ejemplo, con el hecho de “no haber estado” con la comunidad cuando se apareció Jesús; tampoco relacionaba su incredulidad con no confiar en la palabra de sus hermanos, que no era una palabra cualquiera sino un verdadero testimonio sostenido por todos: “Hemos visto al Señor”. “Y qué?”, parece decirles Tomás. “No discuto si Uds. lo han visto o no. Lo que digo es que yo tengo derecho a comprobar las cosas objetivamente: para creer necesito ver sus llagas y meter mi dedo en ellas.” 

Quizás alguno le habrá dicho: mirá que lo primero que hizo el Señor fue mostrarnos sus llagas… Es posible que estas charlas hayan existido, pero más bien da la impresión de que la comunidad, habiendo recibido el Espíritu, ya siente, piensa y actúa de otra manera: esperarán a que el  mismo Señor resuelva las cosas personalmente con Tomás. 

Pasa una semana entera. Sin duda que debe haber sido una semana muy especial. Por un lado, la alegría y la consolación que experimentaron fue tal que se habrá ido decantando y esparciendo como un perfume en todos los resquicios de sus almas y de su vida cotidiana. Por otro lado, la expectativa de que el Señor se les apareciera de nuevo también habrá ido ganando su espacio. Entre la consolación y la esperanza fue surgiendo un ritmo que marcó los encuentros entre Jesús y la comunidad. Ritmo que se imprimió suavemente en la vida de la Iglesia y que vivimos en nuestras Misas semanales, que se celebran poniendo nuestra vida en tensión espiritual entre el agradecimiento de los dones recibidos y la esperanza de que el Señor vuelva.

Pero en lo que me quiero detener ahora es en este “desencuentro” entre Tomás y el Señor. El Señor que resume toda su Vida, Pasión, Muerte y Resurrección en ese gesto de “darnos el Espíritu para el perdón de los pecados”, y Tomás que exige algo que él siente que es previo: la exigencia de una prueba de vida para creer. Vemos que al domingo siguiente, Jesús le acepta a Tomás su condición cuando le dice: “Trae aquí tu dedo: aquí están mis manos. Acerca tu mano: Métela en mi costado”. Pero mientras lo mira y se le acerca y le toma la mano, el Señor le va hablando y sus palabras hacen que Tomás conecte la experiencia que está teniendo ahora, no al Cuerpo del Señor como algo externo, sino a lo más íntimo de su posición personal: a la decisión que había tomado de “no creer si no se cumplían las condiciones que le parecían totalmente razonables y justas”. 

Tomás comprende como herido por un rayo que Jesús califica su actitud como un pecado de “deslealtad personal hacia Él”, una crítica a su modo de proceder. El Señor vino cuando quiso e hizo lo que tenía planeado hacer desde toda la eternidad: dar el Espíritu a los suyos para el perdón de los pecados. El hecho de “no haber estado” en el momento más trascendente de la historia humana tendría que haber suscitado en Tomás una actitud de otro tipo, más humilde… Tomás se da cuenta en el acto de su desubicación. Siguiendo lo que su argumentación anterior permite ver acerca de su personalidad, podemos pensar que podría haber intentado justificarse ante Jesús y los demás, racionalizando lo que había pasado, diciendo cosas como que era lógico que frente a algo tan grande, uno desconfiara… etc. Nada de eso! Tomás solo musita: Señor mío y Dios mío. Y acepta humilde el reproche de Jesús a su pecado: “En adelante no seas incrédulo, sino hombre de fe». 

La deslealtad entre amigos es algo muy íntimo. De afuera, si a un testigo imparcial le cuentan hechos, puede que dude en juzgar si un amigo fue desleal o no, si lo que sucedió entre ellos “fue para tanto”. Entre los amigos, en cambio, esto es algo muy claro. Y si uno de los dos no lo siente así, si no comprende cómo una actitud suya hirió profundamente al otro, es señal de que no era tan amigo o de que no quiere seguir siéndolo. Por la actitud de Tomás al decir “Señor mío y Dios mío” se ve que captó todo en la mirada de Jesús y confesó su fe en medio de la comunidad sin necesidad de  más palabras. Y el Señor lo confirmó con esa fórmula tan suya: “En adelante…” no lo hagas más. Es la misma fórmula que usó con la adúltera, porque la infidelidad en la Biblia es adulterio. Se traiciona lo más íntimo de una relación de amor y de amistad.

Hacemos ahora una reflexión para sacar provecho de la contemplación. Me parece que el evangelio toca un problema que es siempre actual: el problema de qué es pecado y qué no.

Para ir directo al grano, creo que lo primero es entender que si el perdón de los pecados es algo a cargo del Espíritu Santo en Persona, no es lógico pensar que estemos hablando de “algunas acciones malas”, sino de algo en que nos va la vida. El Espíritu Santo rompe el corazón para que se arrepienta como el hijo pródigo y se compadezca como el buen samaritano.

El Espíritu Santo cura la ceguera y abre la mente a toda la Verdad de Jesús.

El Espíritu Santo disuelve el narcisismo egoísta y nos vuelve seres comunitarios, solidarios.

El Espíritu Santo nos defiende del Maligno que nos roba la alegría y nos llena de consuelo y de paz.

Son maneras de decir que el Espíritu “perdona” los pecados grandes, no va solo a los efectos o a algún fruto malogrado, sino a la raíz y al tronco del árbol sanándolo entero para que de frutos buenos. 

Aprovecha también reflexionar cómo es este “perdón grande” del Espíritu. No es un perdón solo puntual, como el que borra una mancha o repara algo roto. El Espíritu perdona cambiando el impulso, dándose a sí mismo para que uno comience a sentir y actuar “con espíritu”, que es como decir con “coraje”, de corazón, lleno de esperanza y fortaleza, con audacia creativa…

Esto es como decir que “el pecado” es “no tener Espíritu”. El pecado es cobardía para pedir y recibir el Espíritu que nos impulsa a creer en Jesús resucitado y a servirlo con caridad en nuestros hermanos.

Esta cobardía, de falta de fe y de amor, es algo que uno no puede solucionar por sí mismo. La falta de coraje para creer y la falta de coraje para dar la vida solo se curan con un coraje que uno “no se puede dar a sí mismo”. 

Nos los tiene que dar el Espíritu. Pero este problema no es algo “así nomás”, como que me falta coraje y ya lo vamos a ir mejorando un poco. Si fuera así el Padre no habría tenido que implementar algo tan inmenso y costoso como la redención. Si cobrar coraje fuera cuestión nomás de heroísmo o de juntar fuerza, el Señor no hubiera que tenido que encarnarse y convivir con nosotros, ni hubiera debido llevar la cosa a extremos como el de la Pasión y la muerte en Cruz. Para dar coraje a otro uno tiene que darlo todo y solo Alguien como Jesús podía realizar una operación de anonadamiento tan total. Si tener este espíritu para confiar y para amar fuera algo humano, el Padre no habría tenido que aceptar el sacrificio de su Hijo ni derramar su Espíritu en la Iglesia (que en muchos ámbitos lo tiene enjaulado, causándole una tristeza inimaginable). El “pecado” de la falta de coraje, más allá de la responsabilidad personal que uno pueda o no tener, es algo que solo el Espíritu Santo puede “hacer que en adelante no se de más”. 

Entrar en el drama de Tomás es entrar en el drama de nuestra infidelidad por falta de coraje para creer y seguir a Jesús que nos ha sido fiel toda nuestra vida. Un Jesús que ya se ha jugado dejando su Espíritu en la Iglesia. Es en Ella, nuestra Madre Santa y Jerárquica formada por pecadores perdonados- que cada uno puede  encontrarse con el Señor Resucitado. Permaneciendo en Ella el Espíritu nos da el coraje que disuelve nuestra cobardía para creer y para dar la vida. 

Diego Fares sj

Comunión espiritual (Sábado Santo y Domingo de Pascua A 2020)

En el lugar donde fue crucificado había un huerto, y en el huerto un sepulcro nuevo, en el cual todavía no habían sepultado a nadie. Por tanto, por causa del día de la preparación de los judíos, como el sepulcro estaba cerca, pusieron allí a Jesús (Jn 19, 41-42). “Pasado el sábado, al amanecer del primer día de la semana, María Magdalena y la otra María fueron a visitar el sepulcro. De pronto, se produjo un gran temblor de tierra: el Ángel del Señor bajó del cielo, hizo rodar la piedra del sepulcro y se sentó sobre ella. Su aspecto era como el de un relámpago y sus vestiduras eran blancas como la nieve. Al verlo, los guardias temblaron de espanto y quedaron como muertos. El Ángel dijo a las mujeres: «Ustedes no teman, yo sé que buscan a Jesús, el que fue Crucificado. No está aquí, porque ha resucitado como lo había dicho. Vengan a ver el lugar donde estaba, y vayan a toda prisa a decir a sus discípulos: ‘Ha resucitado de entre los muertos, e irá antes que ustedes a Galilea: allí lo verán’. Esto es lo que tenía que decirles.» Las mujeres, atemorizadas pero llenas de alegría, se alejaron rápidamente del sepulcro y fueron a dar la noticia a los discípulos. De pronto, Jesús salió a su encuentro y las saludó, diciendo: «Alégrense.» Ellas se acercaron y, abrazándole los pies, se postraron delante de él. Y Jesús les dijo: «No teman; avisen a mis hermanos que vayan a Galilea, y allí me verán» (Mt  28, 1-10).

Contemplación

El lugar donde pusieron a Jesús era un jardín o huerta (kepon). Allí lo depositaron el Cuerpo del Señor José de Arimatea y Nicodemo y permaneció allí  la noche del viernes y todo el sábado santo hasta la madrugada del domingo, en que resucitó. La parábola del granito de mostaza nos dice que se lo siembre en una “huerta” y allí muere y brota y se convierte en un arbusto grande (Lc 13, 19).

El tiempo del sábado santo tomo posesión del mundo

Este sábado santo es especial. En general, es un día que se me suele pasar ocupado en las emociones fuertes del Viernes Santo -como las oraciones de ayer de los encarcelados y sus cuidadores, que ha sido el Vía Crucis más real que haya escuchado nunca- y la preparación de la Vigilia Pascual. Este año, en cambio, siento necesidad de quedarme a “escuchar” el silencio que ha tomado posesión de la ciudad y del mundo: hay silencio de tumba y de cuarentena. 

Le hago espacio, pues, al tiempo muerto del Sábado Santo. 

Las amigas de Jesús también debieron esperar todo aquel Sábado para poder ir a la tumba a ungir su cuerpo. En la soledad y el silencio del Sábado Santo, le dieron tiempo al Señor para resucitar en paz. 

Este es el sentimiento: se necesita paz para resucitar. Paz para que se decanten las heridas de la cruz y paz para emprender lo nuevo que comienza con la resurrección.

Sábado santo: tiempo para echar el grano en la huerta y dejar que se tome el tiempo que necesita para brotar. 

La dinámica compleja de las estadísticas

Para interpretar las estadísticas de la pandemia del Coronavirus, dejando de lados las curvas y los logaritmos, los datos esenciales que miramos son tres: los que se contagian cada día, los que se curan y los que murieron. Hay que saber que contamos solo a los que efectivamente se pudieron registrar. Con esos datos duros, se usan luego distintos modelos para “ver” los positivos 

asintomáticos que debe haber, los que murieron sin que se pudiera analizar si eran positivos, si la tendencia es en alza o hay una meseta…, etc. El punto es que todo el mundo está hoy atento a esta dinámica compleja, en la que importan todos los datos: los positivos, los negativos, la tendencia, las proyecciones, la salud, el trabajo, la angustia… todo. 

Importa todo porque un pequeño detalle inclina la balanza de manera impredecible. Uno solo que se hace el canchero contagia a veinte amigos. No es lo mismo estar enfermo si se cura la mayoría o si la mayoría muere. No es lo mismo haberse curado si uno se puede volver a enfermar o si se encuentra la vacuna. No es lo mismo que a uno no le haga mucho daño el virus porque es fuerte, si puede ser vehículo para que se contagien los que uno quiere…

Todos los datos juntos son algo muy complejo de pensar y más aún de explicar. Sin embargo todos nos hemos abierto a esa complejidad y en poco tiempo estamos aprendiendo muchísimo. 

Hemos tomado conciencia, por ejemplo, de que los “slogans”, los pensamientos simplistas, son peligrosos. 

Hemos tomado conciencia de que las diferencias de ideas se deben expresar sin debilitar la autoridad, que es vital para que podamos actuar como cuerpo social… Tantas cosas!

Comunión

A nivel de la fe, yo saco una enseñanza. 

Mirando cómo con en esta pandemia van juntas la vida, la muerte y la curación, tanto individuales como comunitarias, y viendo que deben ser pensadas y encaradas también juntas, comprendo mejor un aspecto práctico de nuestra fe: la comunión. Sí. Esta pandemia con su incomprensibilidad e inmanejabilidad, nos hace entrar en comunión con todos: comunión de padecimientos, comunión de esperanzas, comunión de información, comunión de acciones…

No es que entendemos todo o sepamos siempre qué hacer, pero precisamente por eso, cuanto menos entendemos más entendemos que al virus hay que neutralizarlo y que con la gente nos tenemos que unir.

A mí esto me ayuda a unir un aspecto de la Eucaristía que siempre me ha quedado grande en su formulación con palabras con otro aspecto bien práctico. La formulación del misterio de la Eucaristía nos dice que es “el memorial de la pasión, muerte y resurrección del Señor”. Memorial que no es un mero recuerdo sino una verdadera actualización: la Eucaristía, nos dice el Catecismo, actualiza la muerte y resurrección del Señor, que se hace verdaderamente presente en el pan y el vino consagrados. En la oración antes de la consagración, al imponer las manos sobre las ofrendas, el sacerdote “invoca al Padre que mande al Espíritu Santo” (Epíclesis): Por eso te pedimos (Padre) que santifiques estos dones con la efusión de tu Espíritu, de manera que sean para nosotros Cuerpo y Sangre de Jesucristo, nuestro Señor.

Cuando trato de “pensar” a Jesús como el crucificado-resucitado” que está allí presente en la Eucaristía, me quedo en blanco, se me escapa… Gracias a Dios ahí mismo puedo comulgar. Y comprendo que la Eucaristía es para “contemplar” con el sentido espiritual del gusto más que con la vista o la inteligencia. 

Lo que quiero decir es que me pasa como con el coronavirus: cuanto más se me escapa la complejidad de la situación más me doy cuenta de que tengo que estar en comunión, con Jesús y con mis hermanos.

Porque cuando entro en comunión con Jesús – con su pasión, muerte en cruz y resurrección gloriosa -, entro en comunión con todos mis hermanos que se encuentran en esta misma dinámica, cada uno en alguno de estos momentos con particular fuerza. Algunos están padeciendo, otros han muerto, otros se están curando. En mi comunión con Jesús comulgo con todos. Y en mi comunión con todos comulgo con Jesús. Comulgo, me uno, compadezco las penas y comparto con la misma pasión las alegrías. 

La pandemia es un momento para comulgar con todos, todo lo posible. Y hoy es el día justo para decir esto. Porque es Sábado Santo, el único día en que nadie comulga ni puede celebrar la Eucaristía. Hoy que esta experiencia de no poder comulgar con Jesús, porque no está “muerto y resucitado sino solo muerto”, hoy que el tiempo detenido del Sábado Santo se ha contagiado a todo el mundo y se extiende ya desde hace varias semanas, podemos sentir toda la fuerza que tiene el deseo de comulgar con el misterio del amor, que es misterio -concreto cada vez- de muerte y resurrección.

Como las santas mujeres, fieles a muerte a su Señor, vayamos al sepulcro con nuestros mejores perfumes para ungir al Señor, que si comulgamos con Él en su pasión y en su muerte, como ellas, entraremos en comunión con su resurrección y su vida, según su promesa.

Diego Fares sj